Successivamente alla proposta di riforma della legge elettorale sarda presentata dalla rete “Sardegna Iniziativa Popolare”, di cui si è detto la scorsa volta, un nuovo appello in tal senso giunge da un drappello di formazioni di varia natura (Legge elettorale Sardegma, appello per una riforma inclusiva).
Anche in questo caso – oltre ad alcune proposte senz’altro apprezzabili già analizzate nel precedente articolo, tra cui l’indispensabile abbassamento delle soglie di sbarramento per liste e coalizioni – si caldeggia il ritorno ad un sistema proporzionale puro, caratterizzato dall’elezione del Presidente della Regione non più ad opera dei cittadini ma da parte del Consiglio Regionale. In altre parole, si auspica un passo indietro nel tempo di quasi 30 anni: gli elettori sarebbero chiamati a scegliere i consiglieri regionali, mentre il Presidente verrebbe individuato da questi ultimi.
Si tratterebbe di un grave abbaglio, di un ritorno al passato la cui ratio sarebbe comprensibile in ambito statale ma che appare, francamente, inspiegabile se non autolesionista a livello regionale.
Il documento a supporto della proposta individua nell’attuale sistema elettorale maggioritario “un ruolo nel produrre la crescita abnorme dell’astensionismo, la sfiducia nel ruolo dei partiti e delle istituzioni, la tendenza al leaderismo e al personalismo della politica” oltre che “l’emarginazione delle iniziative dal basso”.
Partiamo dalla “tendenza al leaderismo”: è davvero singolare che tutto ciò provenga da aree sardiste e indipendentiste. È proprio la loro tendenza al leaderismo che impedisce alla Sardegna di disporre di una forza unitaria realmente determinante, ossia in grado di alzare la testa contro le politiche di Roma (come accade in Trentino o in Valle d’Aosta) anziché subirle passivamente come ora. Non è forse la tendenza al leaderismo quella che ha portato ad una ormai insopportabile frantumazione delle energie, con la moltiplicazione di partitini da 0,5% in cui proprio la propensione al protagonismo degli esponenti di punta impedisce l’unità in vista di battaglie comuni e conduce alla dispersione di questa forza in mille rivoli utili solo agli interessi dei partiti italiani?
Chentu concas, chentu partidos!
Cosa cambierebbe con una legge elettorale proporzionale, in cui ogni partitino si presenta per conto proprio, senza nemmeno più l’incombenza di dover spiegare ai cittadini con chi intende realizzare i progetti che presenta? Ecco, se si volesse contrastare la tendenza al leaderismo sarebbe il caso di mettere da parte la disgregazione e di pensare ad una forza comune. La quale, se si avesse la pazienza di costruirla e renderla solida, anziché ripartire da zero ogni volta, avrebbe molta più probabilità di vincere le elezioni con l’attuale sistema elettorale, piuttosto che con un proporzionale puro che costringerebbe in ogni caso (salvo un 51% che forse potrà essere raggiunto tra non si sa quanti decenni) ad allearsi con i partiti italiani per governare.
Non si capisce poi il nesso tra astensionismo/sfiducia nel ruolo dei partiti e attuale sistema maggioritario: si crede forse che con un sistema proporzionale i partiti sarebbero in grado di superare l’attuale carenza di idee? O i cambi di maglia, che anzi verrebbero favoriti? O che una “grande coalizione” sorta dopo le elezioni all’insaputa degli elettori, in pieno stile Draghi, sarebbe capace di suscitare l’entusiasmo dei cittadini? O veramente si ritiene che i cittadini che ora si astengono, una volta esautorati anche della possibilità di scegliere direttamente il Presidente della Regione, ritornino in massa alle urne? Richiamati da cosa? Dalla prospettiva di un’ammucchiata post-elettorale priva di alcuna reale comunione di intenti?
In realtà, il problema è esattamente questo. I cittadini si allontanano dalla politica quando si accorgono che le loro scelte non sono in grado di sortire cambiamenti. Un sistema proporzionale puro in ambito regionale, che di fatto impedirebbe l’alternanza, renderebbe ancor più ininfluenti le scelte della cittadinanza, distanziandola ulteriormente dalla politica sarda, convincendola ancora di più che tanto non cambierà niente.
Per capirci: se un meccanismo di questo tipo fosse stato applicato alle elezioni del 2024, la coalizione che sostiene la Todde sarebbe stata costretta ad imbarcare pezzi del centrodestra per arrivare alla maggioranza necessaria per governare. E i loro elettori, convinti di aver optato per una alleanza di centrosinistra, avrebbero visto entrare in maggioranza magari i Riformatori, o il Psdaz, o addirittura Forza Italia. Ma sarebbe anche potuto accadere che la Giunta la formasse il centrodestra, ingaggiando a sua volta magari il PD. Tutto sarebbe stato possibile.
Davvero si può pensare che sia questa prospettiva a riavvicinare i cittadini alla politica? A maggior ragione, semmai, i partiti diverrebbero ancora più distaccati dalla vita del comune cittadino, perché non sarebbero più costretti a competere con gli avversari: di fatto, avrebbero in ogni caso la possibilità di far parte della maggioranza in ogni momento giustificati dal solito “senso di responsabilità verso il funzionamento delle istituzioni”.
Sarebbe proprio un tale sistema paludoso a generare la “riproduzione del potere di ristrette elites” di cui si parla nel documento.
Peraltro: se sono trascorsi mesi, dopo le elezioni, per la formazione della Giunta Todde, nonostante la coalizione che la sosteneva disponesse della maggioranza assoluta, cosa accadrebbe se oltre all’esecutivo occorresse formare la maggioranza stessa? Se le trattative sono lunghe ed estenuanti per forze che si sono presentate alleate alle elezioni, con un candidato Presidente ed un programma condivisi, cosa succederebbe tra partiti che si sono presentati su fronti opposti?
Probabilmente qualcuno è troppo giovane per ricordare legislature quali quelle contraddistinte dalle Presidenze Palomba, Floris, Pili, Masala. Spettacoli indecorosi che alla Sardegna non farebbe bene rivivere.
Molto meglio il succedersi di riforme e controriforme che quella palude immobile, con i cittadini ancora una volta esautorati dalle logiche autoreferenziali del Palazzo. Ora, almeno, dopo 5 anni si deve rendere conto ai cittadini del proprio operato: se è stato negativo, si va a casa e si passa la palla agli altri.
A maggior ragione, non si coglie come i proponenti possano essere convinti di combattere il clientelismo che anzi sarebbe pienamente favorito da un sistema privo di reali avvicendamenti: da quando il Presidente della Regione è eletto direttamente, nessun partito (salvo cambi di casacca di singoli consiglieri) ha potuto amministrare la Sardegna per due volte di fila. Cosa accadrebbe se i consiglieri regionali potessero stare in maggioranza per due, tre, quattro legislature di seguito? Non sarebbe forse questo il migliore viatico per il sottogoverno senza quartiere? E non valga richiamare le esperienze del passato dei vari Soddu, Melis ecc.: in quell’epoca, infatti, operavano partiti con ideali forti che consentivano di nutrire una certa fiducia nella politica. Quel mondo non esiste più.
Ma i già tanti problemi finora elencati non terminerebbero qui.
Se venisse approvata una riforma di tale tenore, non esisterebbe un programma elettorale di governo al quale fare riferimento. Ogni partito ne presenterebbe uno proprio e tutto sarebbe rimandato al momento post-elettorale. Un vero “momento del noi” tra pochi eletti. Pertanto, mentre oggi l’elettore che ha scelto la Todde potrà rinfacciarle il mancato adempimento delle promesse rilanciate in campagna elettorale, col sistema proposto verrebbe incentivata una totale deresponsabilizzazione dei candidati, dato che ogni formazione eletta potrebbe imputare la mancata attuazione dei propositi alla mancata adesione degli altri partiti alle proprie intenzioni. In altre parole: il partito Giallo si presenta promettendo di abbattere le liste d’attesa in dieci giorni; partecipa alla maggioranza col partito Rosso e con quello Blu; dopo 5 anni potrà dire di essere stato costretto all’alleanza per “senso di responsabilità”, per “non lasciare la Sardegna senza una guida” e di non aver potuto attuare queste promesse per colpa dei malsopportati alleati di governo. Tutto ciò aprirebbe la strada ad una forma di anarchia politica che perderebbe completamente di vista la responsabilità nei confronti degli elettori.
In termini di leaderismo, peraltro, non si può minimamente paragonare il contesto regionale a quello nazionale. Come detto nel precedente articolo, a cui si rinvia, un sistema proporzionale a livello nazionale meriterebbe ragionamenti assai differenti: innanzitutto, per via della presenza del Presidente della Repubblica, organo super partes che incarica il Presidente del Consiglio; e poi perché le prerogative di un Consiglio Regionale non sono neanche minimamente paragonabili a quelle del Parlamento o del Governo italiano. È lapalissiano che in ambito regionale un sistema maggioritario e i premi di maggioranza comportano rischi assai minori di quelli che si correrebbero se la stessa legge elettorale venisse proposta a livello nazionale (dove, infatti, un sistema come quello previsto dall’Italicum andrebbe combattuto con ogni mezzo). Da questo punto di vista, Parlamento e Consiglio Regionale stanno su piani differenti: negarlo significa confutare la realtà.
In definitiva, dunque, gli obiettivi perseguiti dai promotori di questa iniziativa (rappresentatività, maggiore coinvolgimento dei territori, inclusività, eliminazione del voto disgiunto) possono essere tranquillamente perseguiti con una indispensabile ed ineludibile riforma della legge elettorale attualmente vigente. Un sistema come quello proposto dalle sigle che hanno appoggiato il documento favorirebbe unicamente i grandi partiti italiani, specie quelli di area centrista, che avrebbero la certezza di poter governare in eterno; e forse qualche singolo candidato di forze minori che potrebbe accedere al Consiglio Regionale senza, però, avere la possibilità di incidere davvero sulle scelte della Giunta se non in termini di un pressochè ininfluente diritto di tribuna.
Una proposta siffatta è congeniale soltanto a chi non vuole presentarsi agli elettori chiarendo fin dall’inizio da che parte voglia stare. In un contesto politico come quello sardo, fortemente disgregato e volubile, in cui passare da destra a sinistra non crea particolari difficoltà, il proporzionale puro condurrebbe ad una ulteriore proliferazione di partitini, non più incentivati ad aggregarsi in vista di un obiettivo comune.
Un suggerimento: anziché avere come proposito quello di eleggere uno, due, tre, quattro consiglieri di minoranza che facciano da meri sparring partners ai partiti italiani, perché non iniziate a sognare una forza sarda in grado, magari tra 5, 10 o 15 anni, di vincere le elezioni, conquistare il premio di maggioranza e governare la Sardegna in autonomia? Sarebbe molto più semplice col sistema attuale che con quello da voi proposto. Allargate gli orizzonti, guardate lontano, si può ambire a un progetto ben più grande rispetto a quello di fungere da semplici comparse nelle sceneggiature scritte da altri.
Antonio Piras