La moratoria dai piedi d’argilla

A differenza di quanto declamato con un appoggio mediatico senza precedenti, la Giunta Regionale, al momento, non ha approvato alcun effettivo blocco della speculazione eolica. Nessun nuovo provvedimento è entrato in vigore. Esiste, ad oggi, un debolissimo disegno di legge che il Consiglio Regionale dovrà, sulla base delle proprie tempistiche, tramutare in legge; la quale, con enorme probabilità, verrà spazzata via dalla Corte Costituzionale (o, prima ancora, depotenziata dai giudici amministrativi).

Vista l’inconsistenza giuridica della proposta, il risultato politico – prevedibile da tempo – è stato ottenuto: indurre la cittadinanza a credere di aver smorzato il problema; scaricare le responsabilità della inevitabile impugnativa sul governo nazionale; far dimenticare ai sardi chi faceva parte del governo Draghi quando quell’esecutivo riduceva al lumicino le prerogative della Regione contro l’assalto eolico. Col beneplacito del sistema dell’informazione, che ha indotto i cittadini a pensare che da ieri viga un blocco delle pale, tutto ciò diventa possibile.

Scendendo nel dettaglio, la delibera della Giunta Regionale approvata il 30 aprile costituisce una semplice proposta, priva, al momento, di qualsiasi efficacia normativa. Non è entrata in vigore alcuna moratoria. Non è stato approvato alcuno stop ai procedimenti di autorizzazione degli impianti eolici. Nell’ordinamento, in poche parole, non si registra ad ora nulla di nuovo rispetto a quanto precedentemente previsto.

Se il disegno di legge della Giunta verrà approvato, l’intero territorio regionale – recita, enfaticamente ed ingenuamente il testo – sarà sottoposto per 18 mesi al divieto di realizzazione di nuovi impianti di produzione e accumulo di energia elettrica da fonti rinnovabili che incidono direttamente sull’occupazione del suolo. Il secondo comma dell’articolo 2 aggiunge che tali disposizioni si applichino anche agli impianti “le cui procedure di autorizzazione o concessione sono in corso al momento dell’entrata in vigore della presente legge”.

Si badi bene: viene vietata la realizzazione dei lavori, non l’ottenimento delle autorizzazioni.

Ciò si spiega in quanto, ipotizzando di scavalcare sicure censure da parte della Corte Costituzionale, si è scelta la strada della creatività giuridica: non si sospendono i procedimenti autorizzativi, ma si prevede il divieto di realizzare gli impianti. Sembrerebbero ricompresi – ma non è chiaro – anche quelli già autorizzati ma non ancora installati; vi rientreranno sicuramente, invece, quelli le cui procedure autorizzative sono attualmente in corso. Davvero non si comprende come il team legale che supporta la Giunta possa pensare che la Corte Costituzionale non faccia ricadere una norma siffatta nel divieto di moratoria previsto dall’art. 20, comma 6, del decreto Draghi, di cui abbiamo parlato più volte.

Tale opzione, peraltro, pone un problema ulteriore, generato da un ulteriore comma del medesimo articolo 20.

La Giunta ha ritenuto, infatti, di poter scavalcare il divieto di moratoria del comma 6 richiamando il proposito di adeguare il Piano Paesaggistico Regionale e attribuendosi a tal fine, del tutto arbitrariamente, 18 mesi di tempo. Come se i principi fondamentali in materia e le tempistiche di durata dei procedimenti, dettati dalla normativa statale, non esistessero.

Il ragionamento, in altre parole, è il seguente: poiché ci servono 18 mesi di tempo per adeguare il PPR, e verificare in tal modo la localizzazione ideale per installare le pale, nelle more vietiamo la realizzazione di nuovi impianti (anche se già autorizzati). Si tratta di un’argomentazione che si scioglierà come neve al sole davanti alla Corte Costituzionale.

In primis, perchè si tratta comunque di una moratoria mascherata. Una soluzione simile, infatti, era stata tentata dalla Regione Abruzzo [si tenga presente che si discorre di una pronuncia diversa rispetto alla n. 27/2023 di cui si è detto la scorsa volta riguardante specificamente il divieto di moratoria], la quale – con legge regionale n. 8/2021 (art. 4), aveva previsto che “nelle more dell’individuazione in via amministrativa delle aree e siti idonei all’installazione di impianti da fonti rinnovabili” fossero “sospese le installazioni non ancora autorizzate di impianti di produzione di energia eolica e grandi installazioni di fotovoltaico posizionato a terra” in “zone agricole caratterizzate da produzioni alimentari di qualità e/o di particolare pregio” al fine di non compromettere, tra gli altri beni, “il paesaggio rurale”. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 77/2022 (anche stavolta, ricorso presentato da Mario Draghi) ha dichiarato incostituzionale la disposizione abruzzese, affermando, tra le altre cose, che essa contrastava con i principi fondamentali della materia; tra i quali, non solo la celere conclusione delle procedure di autorizzazione (che la Giunta Todde ha pensato di poter aggirare), ma anche quello di “massima diffusione degli impianti”; principi che, secondo la Corte, “sono al contempo attuativi di direttive dell’Unione Europea e riflettono anche impegni internazionali volti a favorire l’energia prodotta da fonti rinnovabili” (par. 4.1.5).

In poche parole: il bene giuridico di cui si discorre non è l’ottenimento di autorizzazioni fini a se stesse ma la massima diffusione degli impianti, lo sviluppo delle rinnovabili e il rispetto degli obblighi internazionali. Pertanto, non si capisce in che modo la Giunta possa pensare di eludere le prescrizioni statali con una provvedimento che consente di ottenere l’autorizzazione ma non – una volta conseguita questa – di realizzare l’impianto. Se tutte le Regioni applicassero un provvedimento di siffatto tenore, gli obiettivi del PNIEC diventerebbero irraggiungibili. Pertanto, anche qualora (ed è quasi impossibile) si superasse lo scoglio del divieto di moratoria, rimarrebbe quello del rispetto delle quote di incremento annuale. La Corte Costituzionale non lo consentirebbe mai.

Dicevamo, peraltro, che – così formulata – la proposta regionale pone un problema ulteriore. Quello scaturente dall’art. 20, comma 7, dell’ormai famigerato decreto legislativo Draghi, n. 199/2021. Prevede tale disposizione: “le aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee”. Ciò significa che – anche se si sorvolasse su quanto detto sopra – richiamare il necessario adeguamento del PPR per prevedere, nelle more, il divieto non costituirà un argomento valido, agli occhi della Consulta, per non dichiarare l’incostituzionalità della norma.

Si pone, poi, un ulteriore interrogativo: la strada intrapresa dalla Giunta conduce a ritenere che sebbene, ora, i procedimenti autorizzatori vadano avanti normalmente (per non ricadere nel divieto di moratoria) è possibile che in seguito se ne impedisca la realizzazione alla luce di una pianificazione territoriale che verrebbe (forse) introdotta a posteriori; ossia, mediante estensione del PPR alle zone interne. Si tratta di un’ipotesi non solo giuridicamente improponibile, essendo stato previsto un abnorme termine di 18 mesi (il diritto da applicare è, infatti, quello vigente al momento dell’emanazione del provvedimento e non si comprende, pertanto, come si possa incidere su procedimenti autorizzatori che in quel momento saranno già conclusi) ma che pone altresì l’inquietante problema degli indennizzi che la Regione sarebbe chiamata a corrispondere alle imprese che dovessero ottenere l’autorizzazione e, successivamente, si vedessero negato il diritto alla realizzazione materiale dell’impianto.

La Consulta, sul punto, ha poi chiarito che il contemperamento degli interessi (ambientali, paesaggistici, alla produzione energetica ecc.) deve avvenire nel corso del procedimento autorizzativo e non certo con le modalità previste dalla delibera della Giunta Todde (cfr. la richiamata sentenza n. 77/2022, sempre al par. 4.1.5). Come si potrebbe pensare, pertanto, di intervenire successivamente tramite PPR senza interrompere i procedimenti autorizzatori in corso?

Il probabile scenario che si prospetta nell’immediato è il seguente. Come detto, la delibera approvata ieri non esplica, per ora, alcun effetto sostanziale. È una proposta che dovrà essere discussa e accolta dal Consiglio Regionale. In caso di esito positivo, entro sessanta giorni dalla pubblicazione avrà presumibilmente luogo l’impugnazione da parte del Governo, con conseguente pronuncia della Corte Costituzionale; dalla quale, per i motivi esaminati, non c’è da aspettarsi un cambio di orientamento. È facile immaginare, tuttavia, che il Campo Largo cercherà di scaricare la responsabilità politiche sul Governo Meloni, che presenterà certamente il ricorso; eppure si tratta dello stesso rimedio attivato più volte dal Governo Draghi. Per cui, non si vede come la Presidente Todde, che di quell’Esecutivo faceva parte, possa contestare a Giorgia Meloni la linea assunta da Draghi contro Abruzzo, Friuli e Sardegna (ad esempio, nella vicenda “Saccargia”).

Potrebbe anche accadere che le amministrazioni locali, ritenendo efficace questo “divieto” destinato a perire, emanino provvedimenti di sospensione dei lavori i quali verrebbero, immediatamente, impugnati dalle imprese. Se così fosse, fatte salve possibili sospensive, i giudici amministrativi potrebbero addirittura disapplicare (con efficacia nel singolo giudizio, a differenza di quanto accade per le pronunce della Corte Costituzionale, che eliminano la norma dall’ordinamento) la norma-Todde per palese contrasto (passando per l’art. 117 Cost.) con la disciplina comunitaria; a quel punto, i provvedimenti amministrativi locali verrebbero annullati dal TAR o dal Consiglio di Stato e resterà da vedere se ciò comporterà la corresponsione di indennizzi a favore delle multinazionali.

In definitiva: si tratta di una soluzione pasticciata, priva di una base giuridica solida, contrastante con la normativa statale e con gli orientamenti della Corte Costituzionale. La Giunta deve sperare – e probabilmente è questa la scommessa politica – che prima della pronuncia della Consulta venga emanato il decreto ministeriale sulle aree idonee e il Consiglio Regionale riesca ad approvare la relativa legge; compito arduo, vista la certa contrapposizione con i territori. In caso contrario, i nodi verranno al pettine e sarà difficile celarli all’opinione pubblica come sta accadendo in queste ore.

Antonio Piras