Il voto utile in Sardegna

Vige, in taluni settori della politica sarda, una peculiare concezione di condivisione. Ci si coalizza, e queste forze vengono considerate preziose, nel momento in cui apportano i voti di cui dispongono; tuttavia, gli stessi alleati e compagni di percorso non hanno voce in capitolo all’atto delle decisioni importanti. Queste le assumono solo alcuni dei membri della coalizione (uno o due?) senza possibilità di discussione, senza confronti pubblici sui temi, semplicemente in nome di un criterio che è, ormai, la stella polare di certa sinistra da decenni: il voto utile. Si tratta di una particolare forma di ricatto politico, in base alla quale si è tenuti ad accettare sempre e comunque ciò che viene imposto da qualcuno, solitamente oltre Tirreno, perché altrimenti “vince la destra”. I contenuti diventano un aspetto secondario: di fronte al pericolo che incombe, le discussioni sono una perdita di tempo o, peggio, un regalo agli avversari.

Premesso che ci sarebbe da ragionare sull’effettiva differenza tra la destra e una parte della sinistra (esistono davvero divergenze sostanziali sui temi cruciali?), Gramsci sosteneva che “ogni male diventa minore in confronto di un altro che si prospetta maggiore e così all’infinito. La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo”. In altre parole, continuando ad accontentarsi del meno peggio si arriva al peggio.

Se si possiede l’effettiva convinzione che la scelta proposta sia la migliore in assoluto e che le altre non meritino considerazione, perché si ha paura di metterle ai voti? Specie se tale timore proviene da chi voleva trasmettere tutto in streaming, e basti ricordare la famosa (e penosa) riunione con Bersani di qualche anno fa. Se questa scelta è veramente la più consona ed è così gradita a tutti, secondo la logica dovrebbe stravincere. O manca, forse, la reale convinzione che tali scelte siano approvate dalla base? Oppure, più semplicemente, non si vuole che la base interferisca? E se così fosse, perché in altre situazioni le primarie sono state considerate un irrinunciabile strumento di partecipazione?

Questo quadretto di imposizioni, in cui gli alleati – e, soprattutto, gli elettori – devono semplicemente ratificare le scelte di pochi, è completato da altri tre elementi.

Il primo: la decisione non è scaturita in Sardegna ma, come alcuni organi di stampa continuano a ricordare da svariati mesi, è il frutto di equilibri romani basati non sulla migliore scelta possibile per la Sardegna ma su rapporti di forza di altro tipo; se tu prendi l’Isola, io voglio il Piemonte; questa regione a me, quest’altra a te, e così via. Scambi che i sardi dovrebbero accettare “con generosità”, in silenzio, pena l’accusa di essere complici della destra.

Per inciso: anche chi impone queste scelte da Roma è stato eletto mediante liste bloccate.

Secondo, e altrettanto preoccupante, elemento: si afferma che la legge elettorale costringe all’unità, altrimenti si perde. Tutto vero. Ma questa sciagurata e antidemocratica legge elettorale vige dal 2013. Da tempo, molte forze minori segnalano il problema, completamente inascoltate. Chi, ora, invoca il voto utile – proprio in nome di regole che impongono di stare assieme ad ogni costo – quali iniziative ha assunto, nel corso degli anni, per cambiare queste norme e per consentire che anche voci diverse (si pensi al clamoroso caso di Sardegna Possibile del 2014) possano essere rappresentate? Nessuna. E il motivo è semplice: questa legge elettorale è pienamene confacente proprio a chi, grazie al ricatto politico del voto utile, può così imporre le proprie scelte, accusando però di favorire la destra se si propone una linea diversa.

Terzo punto: importanti testate di stampa non danno conto delle istanze che emergono nel dibattito, in quanto non gradite a chi le dirige.

Scelte imposte da Roma da soggetti politici eletti con liste bloccate; legge elettorale regionale che soffoca le minoranze, lasciandole fuori dal Consiglio; stampa che mette a tacere le voci sgradite; richiesta ai gruppi minoritari di accettare quanto già deciso. In una situazione così asfittica, la nascita di una forza autoctona che porti avanti, senza condizionamenti esterni, una linea in grado – se non di portare al governo – quantomeno di far emergere esigenze sentite da una vasta fetta di popolazione non solo non è “inutile” ma è necessaria. E moltissimi sardi la auspicavano da tanto tempo.

Chi continua a pubblicare appelli all’unità non ha capito che esiste una larga fetta di cittadini – molti dei quali non vanno più a votare, molti dei quali non sono rappresentati – che tra una destra e una sinistra sostanzialmente speculari, sperano nella nascita di una terza strada radicata nel territorio. Saranno gli elettori a scegliere, e chi si definisce “democratico” dovrebbe basare la propria azione proprio su questo principio, non su quanto accade in tavoli nei quali si parla esclusivamente di tattiche e alleanze e mai dei temi concreti.